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Luigi Vannucchi

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L'artista

Trent’anni fa, il 29 agosto 1978, moriva a Roma Luigi Vannucchi, un grande attore oggi quasi dimenticato, ma che fu protagonista per quasi tre decenni della scena teatrale e televisiva italiana.

Nato a Caltanissetta il 25 novembre 1930, si diplomò all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica diretta da Silvio D’Amico.

Esordì in teatro nel 1951 impersonando Gesù Cristo nel ‘mistero’ medievale “Donna del Paradiso”, allestito al Teatro Eliseo di Roma. Seguì poi una lunga serie di prestigiosi allestimenti (portati in tournée anche all’estero) in cui Vannucchi si cimentò in pressoché tutti i classici del teatro occidentale, dai greci (“Agamennone”, “I Persiani”, “Antigone”, “Prometeo”, “I sette a Tebe”, “Oreste”) a Shakespeare (“Amleto”, “Giulietta e Romeo”, “Re Lear”, “Troilo e Cressida”, “La dodicesima notte”, “Otello”, “Antonio e Cleopatra”, “Il mercante di Venezia”), da Cechov (“Zio Vania”) a Pirandello (“Sei personaggi in cerca d’autore”, “Enrico IV”, “Ciascuno a suo modo”, “La nuova colonia”).

Lavorò anche nel cinema, sia come doppiatore (prestò la voce anche a Clark Gable e Clint Eastwood) sia come attore: tra i suoi film più significativi possiamo ricordare “L’arcidiavolo” di Ettore Scola (1966), “Il tigre” di Dino Risi (1967), “La tenda rossa” (coproduzione italo-sovietica, 1970) e “Anno uno” (1974), film ‘didattico’ – cioè un po’ lento e verboso – di Rossellini, in cui Vannucchi riuscì comunque a tratteggiare efficacemente la figura di Alcide De Gasperi.

Ma fu forse grazie alle sue apparizioni televisive che Luigi Vannucchi si conquistò una più vasta popolarità presso il pubblico italiano. Esordì sul piccolo schermo nel ’54 con la trasposizione del dramma di Hochwälder “Il sacro esperimento”, diretta da Silverio Blasi. Negli anni ’60, con il definitivo imporsi del nuovo genere televisivo, lo sceneggiato a puntate, Vannucchi divenne quindi un volto noto e amato da decine di milioni di telespettatori: da ricordare le sue interpretazioni in “Una tragedia americana” (1962, di A. G. Majano), “Delitto e castigo” (1963, sempre di Majano), “La donna di fiori” (primo di quattro sceneggiati con protagonista il tenente Sheridan, 1965), “Vita di Dante” (di V. Cottafavi, 1965), “I promessi sposi” (di S. Bolchi, 1967), “Giocando a golf una mattina” (1969, di D. D’Anza), “Il cappello del prete” (1970, di Bolchi), “A come Andromeda” (1972, di Cottafavi), “I demoni” (1972, di Bolchi).

Era all’apice della maturità artistica e della popolarità quando, il 29 agosto 1978, Vannucchi si uccise: ingerì una forte dose di barbiturici, lo stesso disperato gesto compiuto ventotto anni prima dallo scrittore Cesare Pavese, ultimo personaggio interpretato dall’attore in tv. “Il vizio assurdo”, pièce di Davide Lajolo e Diego Fabbri incentrata sulla figura di Pavese e trasmessa l’8 settembre, diventò così il commiato di Luigi Vannucchi dal pubblico italiano.

Cosa resta oggi di Luigi Vannucchi? Dove ricercare le sue migliori interpretazioni?
Non al cinema: qui Vannucchi non rese al meglio, costretto in parti secondarie o in produzioni non di primissimo piano, oppure alle prese con ruoli difficili in film dal taglio anomalo e dall’incerta fortuna critica come “Anno uno”, lavoro generalmente considerato tra i meno riusciti di Rossellini.

Il teatro fu forse l’ambito in cui Vannucchi potè esprimere compiutamente il suo talento interpretativo, cimentandosi in un repertorio vastissimo (dai tragici greci fino al teatro contemporaneo) e avvalendosi altresì della messa in scena dei maggiori registi italiani (tra cui Orazio Costa, Giorgio Strehler e Luigi Squarzina). Ma il teatro, si sa, deve gran parte della sua magia al contatto vitale tra attori e pubblico, all’essere insomma irriproducibile al di fuori dei suoi luoghi deputati. La Televisione italiana, è vero, realizzò a suo tempo molti adattamenti televisivi di opere teatrali, ma oggi questi lavori (grazie all’illuminata politica della Rai, che sembra voler fare di tutto affinché l’immensa mole di materiale che giace nei suoi archivi non veda mai più la luce) sono irreperibili dal grande pubblico.

La situazione è leggermente migliore sul versante degli sceneggiati televisivi, replicati di tanto in tanto dalla tv pubblica. Le migliori prove televisive di Luigi Vannucchi sono probabilmente i quattro sceneggiati da lui interpretati tra il ’69 e il ’72, e cioè “Giocando a golf una mattina”, “Il cappello del prete”, “A come Andromeda” e “I demoni”.

Giocando a golf una mattina

“Giocando a golf una mattina” andò in onda in sei puntate tra il 28 settembre e il 16 ottobre 1969. Tratto da un originale televisivo dello scrittore inglese Francis Durbridge (“A Game Of Murder”, 1966), il lavoro fu adattato e diretto da Daniele D’Anza; il romanzo tratto dallo stesso Durbridge dalla propria sceneggiatura fu poi pubblicato nei Gialli Longanesi (con Vannucchi in copertina) nel febbraio 1975. Vannucchi interpreta qui l’ispettore Jack Kirby (Harry Dawson nella stesura originale), che durante una breve licenza si trova alle prese con l’improvvisa morte del fratello maggiore (nella versione di Durbridge si trattava del padre), colpito alla testa da una pallina da golf. Rifiutandosi di credere alla versione ufficiale della polizia, propensa a liquidare il caso come ‘morte accidentale’, e convinto si tratti di un delitto, Kirby indaga per proprio conto ritrovandosi invischiato – come di consueto nelle storie di Durbridge – in un complicatissimo intrigo, finendo comunque per riuscire a districare la matassa e a smascherare i colpevoli. L’interpretazione di Vannucchi, sobria e puntuale, contribuisce a dare spessore e credibilità alla vicenda lungo il dipanarsi delle sei puntate, scongiurando altresì i rischi dell’eccessiva tortuosità e della maniera (non infrequenti in narrazioni di questo genere).

Il cappello del prete

“Il cappello del prete” fu trasmesso in tre puntate tra il 1° e il 15 febbraio 1970. Tratto dall’omonimo romanzo di Emilio de Marchi (1887), fu adattato e diretto da Sandro Bolchi. Vannucchi vi impersona il barone napoletano Carlo Coriolano di Santafusca, un libertino nichilista e amante del gioco che rischia la rovina per un debito non pagato. Spinto dalla disperazione, il barone uccide prete Cirillo, un ricco sacerdote in odore di usura, e ne nasconde il corpo in un pozzo, dimenticando però il cappello: sarà proprio il cappello, ritrovato da un guardiano e passato di mano in mano, a mettere la giustizia sulle tracce dell’assassino. Memorabile l’ultimo quarto d’ora, la scena chiave in cui, convocato dal magistrato che segue il caso (Mariano Rigillo) per un semplice chiarimento, Santafusca finisce – al termine di un crudele duello dialettico – per confessare il proprio crimine, sprofondando nella follia. Eccezionale è qui la bravura di Vannucchi nel ritrarre – con sfumature espressive di straordinaria sensibilità – il progressivo cedimento psicologico di Santafusca, dall’iniziale tracotanza all’incertezza, al timore e infine alla folle disperazione con cui la vicenda del barone si conclude.

I demoni

“I demoni” andò in onda in cinque puntate tra il 20 febbraio e il 19 marzo 1972. Ridotto per il piccolo schermo da Diego Fabbri a partire dall’omonimo romanzo di Fëdor Dostoevskij (1872), lo sceneggiato fu diretto da Sandro Bolchi. Vi si narrano le vicende di una misteriosa setta nella Russia zarista, che mira a sovvertire l’ordine costituito mediante una serie di delitti; Vannucchi vi interpreta – con la consueta maestria – l’enigmatico e diabolico Stavrogin, che alla fine si suicida. L’attore dichiarò (come si può vedere nell’intervista riportata più avanti) di amare particolarmente questo personaggio, essendone rimasto affascinato all’età di sedici anni, quando lesse il romanzo per la prima volta.

A come Andromeda


È però la caratterizzazione dello scienziato John Fleming in “A come Andromeda”, probabilmente, l’interpretazione di Luigi Vannucchi ancor oggi più amata e popolare. Si tratta dell’adattamento – ad opera di Inìsero Cremaschi – dell’originale televisivo britannico “A For Andromeda”, scritto da Fred Hoyle e John Elliot, e trasmesso dalla BBC nel 1961. Diretto da Vittorio Cottafavi, fu programmato dalla Rai in cinque puntate tra il 4 gennaio e il 1° febbraio 1972. La vicenda narrata è quella di un misterioso messaggio spaziale intercettato e decifrato da un gruppo di scienziati britannici; seguendo le istruzioni contenute nel messaggio, gli studiosi – affiancati dal governo e dall’esercito – costruiscono un super-calcolatore che in seguito dà vita a un essere artificiale, una misteriosa ragazza di nome Andromeda (Nicoletta Rizzi). John Fleming, che ha decifrato il messaggio, è il solo a sospettare che dietro alla strana simbiosi tra il computer e Andromeda si celi una grave minaccia per il mondo, ma non viene ascoltato e gli eventi precipitano.
Come si è accennato, “A come Andromeda” è tuttora uno sceneggiato molto popolare, da alcuni appassionati è considerato addirittura il migliore mai prodotto dalla Televisione italiana; sicuramente è una delle vette toccate dalla Rai nell’ambito – così caratteristico degli anni ’70 – dello sceneggiato fantastico, ma probabilmente anche della narrazione televisiva tout court. Le ragioni del grande fascino che “A come Andromeda” ancora esercita sugli spettatori sono diverse: una storia ottimamente congegnata e avvincente, personaggi ben delineati ai quali ci si affeziona, una regia attenta e puntuale, ambientazioni suggestive, bella musica ma soprattutto la splendida prova di Luigi Vannucchi nei panni del protagonista John Fleming. Anche qui l’attore dimostra una grande sensibilità d’interprete, modellando e restituendoci un personaggio dalle molte sfaccettature, dallo schietto entusiasmo iniziale, appena venato di malinconia, all’amara inquietudine che sottolinea gli sviluppi sempre più sinistri che la vicenda assume nel corso delle puntate.

Degli sceneggiati Rai interpretati da Luigi Vannucchi, esistono attualmente in commercio i dvd de “I promessi sposi” e di “A come Andromeda”; direttamente dalla Rai è poi possibile ordinare “I demoni”, disponibile in due formati, dvd e download. Un po’ poco, indubbiamente. Difficile, poi, che l’anniversario della scomparsa venga celebrato adeguatamente, o che sia occasione di qualche riscoperta o ripescaggio. Ma non concludiamo con il solito piagnisteo sul materiale introvabile, gli archivi inaccessibili, l’indifferenza del mondo. Invece, festeggiamo riguardandoci ancora una volta John Fleming alle prese con il segnale cosmico, appassioniamoci con lui alla decifrazione del messaggio, spalleggiamolo contro l’ottusità di militari e burocrati, commuoviamoci alle prime avvisaglie umane di Andromeda.

Passi pure sotto silenzio il trentennale di Luigi. Noi NON dimentichiamo.

Luigi Vannucchi. Un uomo che vive in un mondo tutto suo
di Rachele Baldi (su ‘Bolero-Teletutto’ del 19 dicembre 1971)

Roma, dicembre

Domanda: Vannucchi, lei è un tipo litigioso?

Vannucchi: No, lo ero molto, ma la vita mi ha insegnato a essere paziente e accomodante, ho anche capito che tutto sommato non vale mai la pena di litigare.

Domanda: Allora non potrebbe mai prendere a pugni qualcuno?

Vannucchi: Un tempo lo avrei anche fatto, ma ormai è raro che fuori della famiglia mi si veda arrabbiato. Sono diventato una persona tranquilla, con buoni sentimenti, con parecchio interesse per il prossimo e con tanta trepidazione per tutto quello che gli altri possono patire e soffrire. Non farei mai del male a nessuno, amo gli animali, do la precedenza ai pedoni sulle strisce, non calpesto le aiuole.

Domanda: Ma allora lei che razza di cattivo è?

Vannucchi: Infatti sono stufo di vedermi sempre descritto in modo così fosco, da attore nato con la predisposizione al broncio. Voglio dimostrare che sono diverso, anche simpatico.

La caratteristica principale di Luigi Vannucchi, allora, non è la cattiveria, ma la serietà; questo attore introverso al punto da apparire arrogante, disinvolto ma solo in apparenza, facile alle depressioni e scontento di sé, conserva intatte molte timidezze, Nemico dell’ipocrisia, della superficialità e della falsa cultura, coltiva l’ambizione dello scrittore, rivolta per ora ad aggiornare un diario segreto di oltre 4000 pagine di quaderno, dove Vannucchi ha fedelmente registrato gli avvenimenti più importanti della sua vita e della sua carriera. Da quando dopo essere stato in teatro un Otello imbellito e un Saint-Just addomesticato da Giorgio Strehler, Vannucchi è passato alla televisione rivestendo i panni di tutta una galleria di ‘cattivissimi’ per eccellenza: da Bruto a Don Rodrigo, dal barone di Santafusca de “Il cappello del prete” a un genere di cattiveria spicciola consumata in gialli che lo hanno visto sempre morto ammazzato.

Vannucchi: Questa divisione di buono e cattivo di tipo western mi ha sempre fatto un po’ ridere, anche perché il pubblico della televisione non sa distinguere un cattivo vero da uno falso. Spesso attribuisce l’etichetta della cattiveria a personaggi che sono soltanto tormentati, che soffrono dell’atto malvagio che hanno compiuto. Ma questi non sono cattivi sul serio.

Il riscatto, per Luigi Vannucchi ex malvagio, è venuto ora dal regista Sandro Bolchi che lo ha chiamato a interpretare il personaggio dell’affascinante Stavrogin nella riduzione televisiva del romanzo “I demoni” di Fëdor Dostoevskij.

Vannucchi: Amo il personaggio di Stavrogin da quando a 16 anni lessi il romanzo e mi affascinò per il suo carattere oscuro ed enigmatico. Credo, che il mistero di questo personaggio venga proprio dalla sua complessità e dal fascino che emana e che lo circonda; per questo mi entusiasma.

Domanda: Le somiglia in qualcosa questo eroe di Dostoevskij?

Vannucchi: Mi somiglia nel carattere tormentato e difficile e anche la malinconia è la stessa. Per questo mi è più difficile interpretarlo. Quando un personaggio ha delle affinità, anche lontane, con la mia vera natura, mi stimola una certa tendenza alla pigrizia. Fa eccezione il caso di Stavrogin che ho studiato con passione perché lo trovo attuale e ricco di problematica. Ecco, Stavogrin è un falso cattivo e si prova per lui pietà e compassione per il suo destino.

Domanda: Allora, se lei dovesse ricostruire il ritratto di un vero cattivo, da che parte comincerebbe?

Vannucchi: Dalla sua stupidità, perché la cattiveria è sempre fine a se stessa e senza scopo, quindi non può nascere che dalla stupidità. Un altro genere di. cattiveria è quella che può derivare da una vera e propria malattia nervosa, facile da rintracciare soprattutto nelle donne. C’è poi la cattiveria che è dettata dall’egoismo, ma non in senso generico, perché allora lo saremmo un po’ tutti, io per primo.

In questo viaggio alla ricerca del personaggio ‘buono’, Vannucchi rimane coinvolto totalmente, dimostrando di essere un miracolo di pazienza, di prudenza, di moderazione, di tenacia, di autocontrollo, come una persona toccata dalla grazia del disimpegno e del sorriso.

Vannucchi: È molto difficile dire “sono soddisfatto di quello che ho fatto, sono molto contento della mia professione o della mia vita”. No, non lo dicevo nemmeno a vent’anni, figurarsi se posso dirlo oggi. Ma la fama di insoddisfatto e di malinconico viene fuori soprattutto da questo mio aspetto che qualche volta mette in soggezione il prossimo e questo mi danneggia perché vorrei che il mio carattere e la mia persona si assomigliassero un po’ di più.

Domanda: Le capita mai di divertirsi?

Vannucchi: Certo, perché in realtà io sono una persona che ricerca la compagnia degli altri, che è molto socievole e che è molto più semplice e abbordabile di quanto non sembri.

Domanda: Allora, perché non sorride un po’ più spesso?

Vannucchi: È questo mio pessimismo di base che mi fa mancare l’entusiasmo, lo slancio in certe cose, che non mi permette di godere la vita come andrebbe fatto. Vorrei tanto affrontare le giornate con maggior allegria, con più ottimismo senza essere mai bloccato da questa ingombrante cosa che è l’autocritica.

Domanda: Ma se le raccontano una barzelletta, lei ride?

Vannucchi: Certo, perché mi diverte, perché vorrei essere sempre di buonumore; invece lo sono soltanto per brevi periodi, durante i quali mi carico di ottimismo, riprendo a cuore il mio lavoro, cerco di fare piacevoli incontri, oppure vado a fare un viaggio interessante. Allora il Vannucchi più normale, più serio viene fuori e ho la piacevole sensazione di essere totalmente cambiato. Salvo poi a farmi riprendere dalla malinconia.

Domanda: Allora che cosa succede?

Vannucchi: Mi chiudo in me stesso e mi lascio riprendere dalla stanchezza, da una forma di aridità, dalla convinzione che nemmeno i libri, gli ideali, la cultura e l’arte riescono a risolvere i problemi spirituali della vita.

Domanda: Di che cosa sente soprattutto la mancanza?

Vannucchi: Forse della fede che non ho, altrimenti avrei risolto tutti i miei problemi e non sarei angosciato né tormentato. Penso che la fede, di qualunque tipo sia, risolva tutti i problemi e dia la possibilità di affrontare tutte le avversità quotidiane con uno scopo preciso. Non avendo io questo scopo, mi trovo nei guai. Un tempo amavo molto la cultura e i libri, dico un tempo perché ora non lo penso più, ma la cultura era per me il sostituto povero della fede e mi ha riempito buona parte della vita. Ora ho perduto anche questa fede ed è diventato tutto più difficile e privo di importanza.

Domanda: Lei è una persona che ha amato molto fino a oggi?

Vannucchi: No, ho concentrato l'amore su poche persone; credo infatti di essere stato innamorato solo due volte nella mia vita, non di più, non sono affatto un cottaiolo, perché quando provo un sentimento è per molto tempo. Ne sono una dimostrazione il mio matrimonio e il forte sentimento che provo per mia moglie, con la quale posso litigare, posso avere anche dei contrasti violenti, posso arrivare al punto di rottura, ma poi salta sempre fuori quel fondo che ci lega e che ci tiene uniti.

Domanda: Com’è il cattivo Vannucchi quando litiga in famiglia o fuori?

Vannucchi: Non sono più molto litigioso, lo ero una volta, ma la vita mi ha insegnato ad essere molto paziente e accomodante. Mi resta il litigio familiare, anche se, sia come marito sia come padre, un tempo ero più esigente, pretendevo tanto da chi amavo, da mia moglie in particolare. Un difetto? Forse, ma anche esigere molto dalle persone alle quali si tiene e dimostrare amore. Chi è troppo accomodante con gli altri non è mai tanto ricco come sentimenti.

Domanda: Quali sono le cose che la fanno irritare di più?

Vannucchi: Piccole cose come un ritardo, o grandi cose come l’approssimazione nel lavoro, la superficialità, il dilettantismo, la maleducazione in genere.

L’opera di persuasione, che Vannucchi deve fare per uscire dal personaggio in cui è stato chiuso troppo a lungo, è difficile. E lo fa rifiutando ogni parentela con Don Rodrigo e anche con Stavrogin, rifugiandosi nel quadro normale domestico della famiglia, pronto ad amministrare la propria autorità di padre con la stessa facilità con cui l’attore Vannucchi amministra il proprio talento.

Domanda: Come la giudica suo figlio?

Vannucchi: Il nostro è un rapporto molto amichevole e simpatico, nei limiti che mi concede il mio lavoro, perché bisogna partire dal concetto che facendo l’attore non si può avere con i figli un rapporto di tipo normale, con il padre che va in ufficio ogni mattina e che può seguire giorno per giorno il ragazzo che va a scuola e che ha i suoi problemi. Il nostro mestiere è fatto di lontananze e di incontri, è fatto di telefonate, di lettere e anche della paura di non essere mai abbastanza vivi con chi resta a casa ad aspettarci.

Domanda: Qual'è il consiglio che dà spesso a suo figlio?

Vannucchi: La cosa più importante è godersi la vita giorno per giorno, crescere con giudizio, senza pensare ai problemi più grandi di lui, senza angosciarsi troppo presto delle cose che non vanno, che poi sono gli stessi consigli che do a me stesso. A mio figlio dico anche di non essere pigro, di avere iniziativa, di sapersi riempire la vita e di credere sempre in quello che fa.

Domanda: E lui la ascolta?

Vannucchi: Abbastanza, perché ancora non è in fase molto critica nei miei confronti o forse perché mi vede di rado e non sente il peso del padre, ma è una posizione di privilegio la mia che non durerà molto, perché mio figlio ha quindici anni e fra poco attraverserà l’età critica in cui i padri vengono giudicati senza troppa benevolenza. Allora mi toccherà subire.

L’architettura dei sentimenti che Vannucchi smonta e rimonta con pazienza e costanza rende sempre più lucida l’immagine di un uomo logorato da un estremo umanesimo, rende perfettamente visibile la figura di un protagonista vulnerabile all’altrui e alla propria provocazione.

Domanda: Lei si ritiene bello?

Vannucchi: Non mi considero un bell’uomo, anche se piaccio abbastanza, diciamo allora che sono un tipo interessante, sia fisicamente che come carattere.

Domanda: Le fa piacere sentirselo dire?

Vannucchi: Sì, perché un fondo di vanità ce l’ho, mi aiuta a fare l’attore, altrimenti non potrei presentarmi su un palcoscenico o mettermi davanti a una telecamera. Ma il fatto di avere successo come uomo, mi ha creato professionalmente dei complessi. Spesso, interpretando dei personaggi ‘belli’, mi sono trovato a disagio, come mi imbarazza sentirmi dire “Siete bello”, sia pure vestendo i panni di Stavrogin. Diciamo che mi vergogno un po’.

Così Vannucchi uomo non si libera mai completamente dell’altro, il Vannucchi attore, anche se ha sempre l’aria di rinunciarvi con qualche sotterfugio e quando ne scivola via lo fa per recuperarlo poco dopo. Il ‘cattivo’ Vannucchi è un tizio che tutto sommato si confà al ‘buono’ Vannucchi. Se non altro, lo difende.

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