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C'è stato un tempo ed un luogo dove non solo non esistevano cellulari e PC, ma neanche televisioni e radio e addirittura neppure la corrente elettrica e l'acqua in casa.
Se chiudo gli occhi e ritorno indietro di 42 anni, in un paesino di poche anime, sui monti dell’entroterra genovese, mi rivedo con una maglietta a strisce ed una trombetta in bocca, mentre ballavo il twist o imitavo Celentano, davanti ad un pubblico divertito; i muri della cucina erano di color verde ed un pò scrostati, al centro c'era la stufetta a legna, dove cuoceva "u fugassin" (una focaccetta non lievitata, un pò dura ma molto saporita), pochi poveri mobili ed accanto al muro la "banca" (un grosso pancale che serviva per riposarsi alla sera). Uno degli uomini fumava la pipa, un altro si faceva le cartine, parlando con ampi gesti della guerra e di quando facevano il militare a Mondovì.
Il paesino era diviso in 2 frazioni: in quella inferiore (con 3 famiglie) c'erano i "Gianchi" (per il colore biondo dei capelli), in quella superiore (dove vivevano anche mia nonna, i miei zii ed in passato anche mio padre, in tutto 7 famiglie) c'erano i "Cucchi" (probabilmente il nome derivava dal cuculo, ma il significato preciso non lo conosco); tutti quanti portavano lo stesso cognome (che e’ anche il mio), Carbone, ed erano tutti parenti. I nomi erano spesso sostituiti da soprannomi (Paga, Pace, Angiulin, Luigin, Russu, Ninni, Ninna, Elli, Scarpa, Delmo ecc..).
Non c’era la corrente elettrica, non c’era mai stata, l'illuminazione era dovuta alla lampada ad acetilene. Le sere ci si riuniva in casa di qualcuno o sotto i pergolati (si diceva "anna' a vegia"), si parlava del tempo passato, dei problemi del raccolto, si giocava a carte e si beveva il vino in grosse scodelle.
I giorni erano quasi tutti uguali: ci si alzava presto per andare nei campi, oppure nella stalla o a lavorare negli orti. Le domeniche quasi non esistevano: la vita contadina non lo permetteva e le uniche giornate di svago erano quelle delle sagre paesane, dove si suonava e si ballava, o le fiere (Sant'Antonio e i Morti) dove si mercanteggiava sul bestiame.
Si viveva dei prodotti della terra: gli orti (con zucchine, fagioli e patate), gli alberi da frutta (mele, pere, susine, ciliegi e naturalmente le castagne), i funghi (ne nascevano tantissimi), la caccia (lepri, uccelli e persino scoiattoli) e naturalmente il bestiame (mucche, galline, conigli e qualche pecora).
Un animale molto importante era il mulo, che trasportava dal centro principale (quello in cui passava qualche rara auto e che distava circa 2 ore) cibo, materiale da costruzione ed altro, passando attraverso le strettissime mulattiere. Un grosso problema era il trasporto dei malati e dei defunti, che avveniva tramite rudimentali lettighe, che era, oltreche’ faticoso, anche piuttosto pericoloso, quando d’inverno il terreno era ghiacciato e si rischiava di finire in un burrone insieme alla salma. Un altro sistema di trasporto era per via aerea, mediante dei cavi tesi d’acciaio, le "linci", che collegavano il paese col centro principale; per la legna si usavano agganciare delle rotelle, per il cibo si usava un carrello che necessitava di un motorino. L’acqua si doveva prelevare alla fontana ed era compito esclusivo delle donne, che usavano un bastone che reggeva 2 secchi oppure uno solo direttamente sulla testa; le mucche venivano condotte ad abbeverarsi la mattina e la sera.
La casa di mia nonna era su 2 piani: al primo piano c’era la cucina, un lungo corridoio, una camera da letto, una sorta di soggiorno ed un ripostiglio, (chiamata "ca' vegia"); al piano superiore si accedeva mediante scale di legno: c'era un mini-cucinino, un’altra camera da letto, un camerone (che in parte serviva per dormire ed in parte per conservare ceste di frutta), poi c'era il solaio. La cucina e parte del corridoio erano in pietra, il resto era tutto in legno. Uscendo, c'era un bel pergolato di uva fragola; dietro la casa c’era la stalla e vicino "u 'sechesu" (che serviva per essiccare le castagne e conservarle per l’inverno). Infine, un cascinale, in cui si metteva la legna.
Io ho vissuto lì buona parte del 1963 e le mie occupazioni principali erano spesso sadiche o pericolose: facendo il chimico, mischiando il carburo (che serviva per la lampada) e l' acqua, scavando buche per trovare formicai e dargli fuoco; persino il povero "Capitano", il gatto del paese (che ogni settimana, di sabato, come un orologio, andava incontro a mio padre) subì le mie angherie, lanciato da una finestra per vedere come atterrava. Qualche passatempo era più tranquillo: andare per funghi nei prati vicini o nei solai di qualche vicino per guardare i disegni dei vecchi libri, andare a farsi una scorpacciata di nocciole o more oppure rifugiarsi nei campi di grano, dove una brezza leggera rinfrescava i caldi pomeriggi estivi. C'erano solo altri 2 bambini, un pò più grandi di me: Lando e Italo, che andavano a scuola in un altro paesino vicino (tranne un anno, in cui per loro due fu scomodata una dolce maestrina di Terni che spezzò i cuori dei tanti scapoli del paese).
La mia dolce nonna Laide (da Adele o Adelaide) spesso mi faceva il latte dolce, una sorta di budino al cioccolato, più nutriente (con molta farina e uova); mi recitava una preghiera in stretto dialetto, che citava un santo (forse San Giovanni), con un terribile finale: infatti, per chi non "rigava dritto", c'era un tizzone ardente in bocca. Ricordo che si rivolgeva a me chiamandomi "fuentu" o "fante".
Il 1963 fu anche l'anno in cui gli ultimi abitanti lasciarono il paese, andando a lavorare in fabbrica o in porto.
Qualche tempo fa sono ritornato fra quei monti ed ho trovato solo mura diroccate, con rovi ed ortiche tutt'intorno: avevo un gran magone, perchè ricordavo le persone scomparse, come quel posto, in cui, un tempo, regnava l’armonia e l'umanità, quella che sta anche un pò in casa mia.
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