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Scheda tecnica
Regia: Giuliano Montaldo
Collaborazione alla regia: Fabrizio Castellani, Vera Pescarolo
Assistente alla regia: Angelo Trombetta
Soggetto: Nicola Badalucco, Mario Gallo
Sceneggiatura: Nicola Badalucco
Collaborazione alla sceneggiatura: Mario Gallo, Giuliano Montaldo
Fotografia (colore Cinecittà): Giuseppe Pinori
Operatore: Roberto Dallamano Lombardi
Assistente operatore: Luigi Bernardini
Consulenza e realizzazione dei blue-back: Ermanno Biamonte
Fonico: Franco Borni
Missaggio: Adriano Taloni
Segretaria di edizione: Gilda Atella
Capo squadra elettricisti: Ennio Di Stefano
Capo squadra macchinisti: Giancarlo Serravalli
Scenografia: Giorgio Luppi
Costumi: Enrico Sabbatini
Truccatore: Cesare Paciotti
Sarta: Lamberta Baldacci
Interpreti: Flavio Bucci (il sociologo), Brizio Montinaro (il commissario), Aurore Clément (Gabriella), Ettore Manni (il questore), Giuliano Gemma (il pistolero), William Berger (il suo sfidante), Tony Kendall (Roberto Vinci), Loris Bazzocchi (Politi, l’agente in borghese), Gabriele Tozzi (Federico, il controllore), Marzio Honorato (il regista), Franco Balducci (Aldo Capocci), Sergio Doria (l’amante di Gabriella), Laura D’Angelo (la mascherina), Agla Marsili (la cassiera), Luciano Lorcas (il vice-questore), Gianni Ottaviani (il magistrato), Luigi Uzzo (lo spettatore con la tessera), Pia Attanasio (la signora anziana), Micaela Pignatelli (l’accompagnatrice), Mattia Sbragia, Benito Stefanelli, Dina Sassoli, Enzo Spitaleri, Franco Mazzieri, Alfredo Pea, Guerrino Crivello, Attilio Duse, Gianni Di Benedetto, Umberto Grandi, Pino Lorin, Elisabetta Virgili, Giorgio Cerioni, Angela Serraino, Annabella Andreoli, Antonio Bonifacio, Luciano Rossi, Mario Cecchi, Gino Usai, Michela Martini, Pino Leoni, Renata Ranieri, Conchita Airoldi, Gennarino Pappagalli, Bruno Di Geronimo, Irene Bignardi, Paolo Passanisi
Montaggio: Olga Pedrini
Musiche: Egisto Macchi (dirette da Giacomo Scomegna)
Direttore del doppiaggio: Flavio Bucci
Organizzazione generale: Enzo Giulioli
Segretario di produzione: Bruno Ricci
Ispettore di produzione: Adriano Di Lorenzo
Produzione: Mario Gallo per Filmalpha s.p.a.
Produttore esecutivo: Mario Gallo
Durata: 102’
Programmazione: lunedì 25 ottobre 1979, Rete 2.
Trama
In un cinema di Roma, durante il primo spettacolo del pomeriggio, mentre sullo schermo si svolge la scena del duello di un film western (si tratta di E per tetto un cielo di stelle, 1968, di Giulio Petroni, benché i manifesti all’interno del cinema siano quelli de I giorni dell’ira, 1967, di Tonino Valerii, sempre con Giuliano Gemma) uno spettatore viene ucciso con un colpo di pistola. Dilaga il panico, le uscite vengono bloccate e sul posto accorre la polizia. Il commissario interroga tutti e cinquantaquattro gli spettatori, ma non viene a capo di nulla. La notte, si decide di ricostruire l’accaduto con una nuova proiezione, e tutti devono tornare ai posti che occupavano al momento dello sparo; per occupare la poltrona del morto si offre volontario il controllore dei biglietti. Dalla cabina di proiezione parte la pellicola, ancora la sparatoria e un nuovo delitto: anche il controllore muore ucciso da un colpo di pistola. Ancora panico e caos. Mentre fuori del cinema un assembramento di reporter e curiosi reclama notizie, all’interno si comincia a indagare sui rapporti tra la prima e la seconda vittima: neanche in questo caso si approda a nulla. Un sociologo presente in sala propone agli inquirenti una sua bizzarra teoria, secondo cui la prima vittima, un accanito appassionato di cinema, televisione e fotografia, ha fatto da “tramite, come un medium nelle sedute spiritiche”, con la realtà oltre lo schermo: ormai il contatto è stabilito, conclude lo studioso, e in caso di altre proiezioni i morti aumenteranno. Nonostante il palese scetticismo della polizia, il sociologo riesce a trovare nello schermo un foro bruciacchiato. Mentre si attende la perizia balistica sui proiettili sparati, arriva il questore che, seccato per le strane dicerie che cominciano a serpeggiare circa “magie, misteri soprannaturali e altre stregonerie”, ordina un’altra ricostruzione durante la quale egli siederà personalmente sulla sedia ‘maledetta’. Tutti riprendono posto, e riparte il film. Al momento della sparatoria accade qualcosa di incredibile: il protagonista della pellicola, invece di interpretare la solita scena del duello con il suo avversario, guarda in platea cercando la sua prossima vittima; il questore fugge terrorizzato, ma viene colpito: il pistolero, con un gesto di soddisfazione, getta il sigaro che teneva tra le labbra. In sala il terrore e lo sgomento sono ormai all’apice. Arriva la perizia balistica: i colpi sono stati sparati da una Colt a tamburo del 1863. Gli spettatori sono finalmente liberi di uscire dal cinema, mentre gli inquirenti sono affranti per l’impossibilità di fornire una spiegazione attendibile dell’accaduto. Alla fine, a sala vuota, rimangono il commissario e il sociologo, che insiste nella sua spiegazione ‘fantastica’: le immagini di cui l’uomo si nutre — sostiene — potrebbero, a processo invertito, finire per divorarlo. A riprova della sua teoria, lo studioso raccoglie da terra e mostra all’attonito commissario il mozzicone ancora fumante del sigaro gettato dal pistolero del film.
Commento
Si tratta di un film televisivo che fu presentato fuori concorso al ‘Premio Italia’ del 1978, e trasmesso l’anno successivo sulla seconda rete Rai all’interno del ciclo "Tv cinema - 5 film italiani per la televisione." L’inquietante tema dello schermo cinematografico ‘vivo’ pare in qualche modo derivato dal più classico motivo del ‘quadro che prende vita’, di cui esistono numerosi esempi nella letteratura gotica e fantastica (tra i tanti esempi, si possono ricordare "Il castello di Otranto" di Walpole, "Il manoscritto trovato a Saragozza" di Potocki, "Il ritratto" di Gogol, "Il ritratto ovale" di Poe e "Owen Wingrave" di Henry James). Ma neppure il tema vero e proprio dello ‘spettro cinematografico’, dell’immagine che dal suo supporto di celluloide interagisce con il mondo reale è totalmente nuovo: lo si ritrova ad esempio in un piccolo corpus di racconti dello scrittore argentino Horacio Quiroga (Lo spettro, Il vampiro, Il puritano) e in un romanzo dello statunitense Jack Finney, "Un mondo di ombre". È comunque con un racconto di Quiroga, "Lo spettro" (1921), che il soggetto scritto da Nicola Badalucco e Mario Gallo denota maggior attinenza: anche lì, infatti — pur con evidenti differenze di tono e struttura narrativa —, si parla di un attore di western che ‘esce’ dal film proiettato per uccidere uno spettatore (nella fattispecie, il rivale in amore).Il film di Montaldo, comunque, pur funzionando già benissimo sul piano della pura messa in scena, pare voler farsi carico anche di un significato metaforico, che sarebbe poi la teoria espressa nell’incredulità generale dal personaggio del sociologo: nell’odierna civiltà dell’immagine, se non poniamo freno alla nostra passività e credulità nei suoi confronti, finiremo per esserne ‘uccisi’, cioè annullati. Un messaggio forse condivisibile e tutto sommato, se visto col senno di poi, lungimirante, ma che nulla aggiunge e forse qualcosa toglie al fascino complessivo del lungometraggio, la cui abile costruzione attorno a un mistero sconcertante e insolubile poteva forse fare a meno di una sentenziosa e univoca ‘morale della favola’ finale.
Rassegna stampa
Finalmente l’esordio di Giuliano Montaldo, regista televisivo. Il suo Circuito chiuso, presentato fuori concorso al «Premio Italia» 1978, verrà mandato in onda questa sera, giovedì, sulla Rete 2, a colori. La trama è semplice, quasi un pretesto. Ma un pretesto molto originale: in un cinema alla periferia di una grande città, durante il primo spettacolo del pomeriggio, mentre sullo schermo si svolge la sparatoria di un film western, uno spettatore viene ucciso con un colpo di pistola. Come nei «gialli» che si rispettino, arriva sul posto il commissario di polizia, il quale interroga il pubblico (le uscite naturalmente sono bloccate), per ricostruire la scena del delitto. Tutti riprendono i posti precedentemente occupati; nella poltrona del morto si siede un controllore dei biglietti, scelto a caso dal commissario. Dalla cabina parte la pellicola, ancora la sparatoria sullo schermo e un nuovo delitto. Il controllore muore ucciso da un colpo di pistola. Nel ruolo del commissario, Brizio Montinaro. Tra gli altri attori, Giuliano Gemma, mai apparso, a sua volta, prima d’ora in tv; Aurore Clément; Ettore Manni, tragicamente scomparso qualche mese fa; Flavio Bucci (indimenticabile Ligabue); Mattia Sbragia; l’ottuagenaria Pia Attanasio, madre di Carla Del Poggio. Il nome di Montaldo si aggiunge così al già lungo elenco di registi che hanno voluto affrontare l’esperienza della telecamera, dopo quella della macchina da presa. Di Montaldo, va ricordato l’impegno civile e politico, espresso attraverso Sacco e Vanzetti, Giordano Bruno, L’Agnese va a morire. Bisogno di evasione, la sua, oppure ricorso a una importante alternativa qual è la tv? Risposta di Montaldo: «Non esattamente un bisogno di sottrarmi all’impegno ma, al contrario, l’esigenza meditata di affrontare, insieme con i telespettatori, un argomento attuale che ci coinvolge tutti. Quanto poi all’alternativa essa esiste ed è innegabile. Infatti autori liberi come me e non conformisti hanno trovato, come già molti colleghi tedeschi, un veicolo che consente libertà di pensiero e di linguaggio nella televisione» (I fotogrammi assassini di Giuliano Montaldo, art. red. su ‘Il Secolo XIX’, 25 ottobre 1979).
Montaldo li ha messi in mostra proprio tutti quanti i vizi del cinema, quando viene fatto per la televisione. Ci riferiamo [...] a quel senso di ibrido spettacolare che con metafora culinaria [...] si direbbe né carne né pesce, in altri termini talento cinematografico disperso in una cattiva coscienza del diverso canale di diffusione; cosicché si aveva [un’] impressione di [...] cinema complessato e [di] televisione ambiziosa e velleitaria. [...] E qui si arriva al nocciolo della questione: il soggetto di Circuito chiuso e il modo in cui è stato svolto. Il ‘Radiocorriere’ avvertiva trattarsi di «una metafora sulla civiltà delle immagini svolta secondo lo schema classico del film giallo». Belle parole davvero, e in una certa misura anche pertinenti, se però non si fossero riferite più alle intenzioni [...] che non [agli] esiti. Figurarsi che c’era di mezzo una storia di morti ammazzati in un cinematografo che le indagini poliziesche non riescono a chiarire in quantoché l’omicida sarebbe il personaggio del film proiettato. Una soluzione ipotizzata e poi confermata ai poliziotti increduli e variamente imbecilli (va beh che rappresentavano l’ottusità del potere, ma non era il caso di esagerare) dal sociologo di turno. Il quale, con la disinvoltura di un maestro elementare [...] enunciava una teoria secondo cui di immagini si può morire. Certo che, se fosse vero, morire per esempio vedendo Circuito chiuso non sarebbe una bella morte (March., Circuito chiuso, su ‘Il Corriere Mercantile’, 26 ottobre 1979).
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