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Premessa
Circa tre anni fa venni coinvolto nella fondazione di una Associazione Entomologica della provincia di Brescia, della quale tuttora faccio parte.
Ogni anno organizziamo una mostra didattica, contornata da alcuni seminari scientifici.
Nell'ultima edizione mi è stato proposto di tenere un intervento sugli alloctoni, vale a dire su quegli organismi animali o vegetali che, introdotti in paesi diversi da quelli di origine, vi si sono ambientati più o meno felicemente...
La faccenda ha origini antiche ma è estremamente attuale... spero di non essere andato off-topic (ma una sezione "natura", dolorosamente, risulta tutt'ora assente)
Segue il testo di detto intervento, spero vi interessi in qualche misura.
Gli Alloctoni
L’introduzione in un dato ambiente di un essere vivente alloctono, vale a dire di provenienza geografica differente, può rappresentare una delle maggiori minacce alla biodiversità dell’ambiente stesso.
Questo fenomeno può avere origini assai differenti, che vanno dalla migrazione per cause naturali e non, al trasporto accidentale, all’immissione più o meno volontaria da parte dell’uomo.
Di fatto, un organismo estraneo inserito in una biocenosi completamente differente va incontro a tre possibili destini:
1) non riesce a sopravvivere e riprodursi (es. trota iridea, salmone), oppure può farlo soltanto in condizioni controllate (coltivazioni agricole, allevamenti zootecnici)
2) riesce a trovare una nicchia adatta e si inserisce in modo abbastanza equilibrato nell’ambiente (carpa, gambusia)
3) trova condizioni estremamente favorevoli (abbondanza di cibo ed assenza di predatori, parassiti o altri fattori di controllo) e la sua popolazione si espande in modo incontrollato, creando problemi talora drammatici.
Nell’ultimo ventennio i mass media hanno dato ampio risalto ai problemi connessi alla presenza, soprattutto nel nostro paese, di organismi "di importazione" privilegiando purtroppo, come di consueto, le informazioni a carattere sensazionale e i titoli drammatici quali ad esempio lo "squalo d’acqua dolce", la "tartaruga killer", etc.
Ne risulta, salvo che per gli addetti ai lavori, l’impressione tanto forte quanto inesatta che si tratti di un problema recente.
In realtà questo genere di fenomeni ha origini molto antiche, ed è inestricabilmente legato allo sviluppo e alla diffusione della razza umana sul pianeta.
La stessa biodiversità che ci affanniamo a difendere, a ben pensarci, è composta in buona parte di esseri viventi provenienti da ambienti anche molto lontani.
Molti animali e piante che oramai consideriamo facenti parte del nostro panorama naturalistico “originale” o che addirittura lo caratterizzano, sono in realtà specie alloctone integrate di antica storia.
Il castagno (Castanea sativa), tanto comune nei nostri boschi da identificare una fascia vegetazionale, si è diffuso nella nostra penisola di pari passo con la colonizzazione umana, dalla preistoria fino al tempo dei Romani, pur essendo di origine asiatica.
Lo stesso albero di gelso, fino a qualche decennio fa elemento caratteristico dei panorami agricoli della pianura padana, è essenza di introduzione piuttosto recente (XII secolo), dovuta alla sua utilità come alimento per il baco da seta. Quando la bachicoltura andò in crisi, all’inizio del ‘900, a causa di alcune epidemie dei bachi e di un parassita della pianta, si tentò di allevare un’altra specie di farfalla, il Bombice dell’Ailanto (Philosamia cynthia). L’esperimento non andò a buon fine, ma tanto la farfalla quanto la pianta ospite, l’Ailanto (Ailanthus altissima) sfuggirono all’allevamento e si aggiunsero all’elenco delle specie italiane.
La buddleia (Buddleya davidii) detta anche "albero delle farfalle", che allieta le rive dei corsi d’acqua con la sua fragrante fioritura estiva, è una pianta ornamentale di origine cinese, sfuggita alla coltivazione e quindi naturalizzatasi.
Il fagiano (Phasianus colchicus) è anch’esso di origine asiatica, e la sua introduzione in Europa risale addirittura al tempo degli antichi greci.
La carpa (Cyprinus carpio) proviene anch’essa dall’Asia, importata dai romani che l’allevavano a scopo alimentare, e vi sono altre specie la cui presenza nelle nostre acque non è plausibile se si esclude l’introduzione artificiale. Tra queste curiosamente figura il persico reale (Perca fluviatilis), vanto gastronomico tradizionale dei nostri laghi subalpini.
Ancora più complesso ed affascinante è il caso del coniglio: estintosi durante l’ultima glaciazione in tutta l’Europa con la sola eccezione della Spagna, fu qui trovato verso il 1100 a.C. dai navigatori fenici i quali chiamarono la regione (equivocando sulla sua natura geografica) “isola dei conigli”. Il nome fenicio originario fu in seguito romanizzato in "Hispania". Furono proprio i romani ad iniziare l’allevamento di questo animale diffondendolo nuovamente nel resto del territorio europeo, isole Britanniche comprese.
Il 25 dicembre 1859, nei dintorni di Melbourne, in Australia, furono liberati 13 esemplari di coniglio, fino a quel momento non presente sul continente. Nei primi anni del ‘900 la popolazione dei conigli australiani superava i 500 milioni da esemplari, e costituiva un flagello tale da giustificare l’erezione della "rabbit proof fence", una barriera di rete lunga 3000 chilometri, che tuttora taglia in due da costa a costa il territorio della West Australia.
Furono effettuati anche tentativi di controllo biologico con predatori (volpi) che però preferirono orientare la propria attività di caccia nei confronti della fauna locale autoctona, diventando anch’esse fonte di problemi.
Nel 1951 infine fu diffuso artificialmente il virus della mixomatosi, che contribuì per un certo tempo a decimare la popolazione esistente, ma che negli ultimi decenni ha portato alla comparsa di razze resistenti o immuni. Il problema resta quindi aperto.
Un fenomeno analogo, sempre in Australia, fu causato dalla incauta importazione, nel 1900, di cactus appartenenti al genere Opuntia (il comune fico d’india): in meno di vent’anni la pianta riuscì a colonizzare diverse decine di migliaia di ettari di pascolo, sfidando qualsiasi tentativo di eradicazione da parte dell’uomo. Soltanto nel 1926 si riuscì a trovare un insetto fitofago di origine argentina, il lepidottero Cactoblastis cactorum, in grado di riportare sotto controllo la popolazione di cactus. Questo esito felice rappresenta a tutt’oggi uno dei rari casi di lotta biologica su vasta scala coronata da successo.
Tornando alle nostre latitudini, al momento attuale possiamo osservare la contemporaneità di due fenomeni differenti.
Nel primo caso si assiste all’esplosione demografica di alloctoni di introduzione recente, il cui ingresso nel nostro paese è stato reso possibile tanto dall’aumento esponenziale dei flussi commerciali e turistici internazionali, che rendono possibile il trasferimento rapido di organismi da una parte all’altra del mondo, quanto dall’adozione di politiche sconsiderate di gestione delle risorse ambientali quali ad esempio ripopolamenti con specie esotiche senza preventivamente valutarne in modo approfondito il potenziale biologico.
Se poi consideriamo la generale situazione di degrado dell’ecosistema, non è difficile intuire come parametri ambientali sfavorevoli alla vita della nostra fauna possano invece risultare ben tollerabili o addirittura graditi da specie di nuova introduzione provenienti da habitat caratterizzati da condizioni di vita molto più dure. La conseguenza di questo processo si concretizza in una progressiva sostituzione delle specie autoctone o presunte tali da parte di quelle alloctone.
L’altra parte del problema è rappresentata dal fatto che, sempre considerando gli ultimi due decenni, si sta osservando la comparsa di popolazioni notevoli di organismi alloctoni che, pur essendosi stabiliti da tempo nei nostri confini, solo in tempi recenti hanno raggiunto quella rilevanza numerica tale da renderne manifesta la presenza.
L’attuale proliferazione della nutria (Myocastor coypus), roditore sudamericano di grossa taglia originariamente utilizzato come animale da pelliccia (il famoso "castorino") e da carne, è in realtà un lungo cammino iniziato con il primo allevamento ad Alessandria nel 1921. Seguendo le richieste del mercato delle pelli, vi fu un’iniziale espansione degli allevamenti, in gran parte a carattere familiare o comunque di dimensioni ridotte, tosto seguita da una notevole contrazione della richiesta, spesso sfociata nel rilascio degli animali nell’ambiente con l’abbandono dell’attività, per non dover sostenere l’onere o il fastidio dell’abbattimento. Attualmente la nutria, diffusa in modo più o meno puntiforme su gran parte del territorio nazionale, è accusata di essere un vettore di pericolose malattie e di compromettere gravemente la stabilità degli argini traforandoli con le sue tane.
Dagli studi più recenti in merito risulta per fortuna che queste accuse sono per la massima parte infondate, e che questo roditore, tutto sommato, non sia in grado di esplicare al massimo le sue possibilità riproduttive nei nostri climi.
Un altro alloctono emergente è il siluro (Silurus glanis), un enorme pesce gatto originario del bacino del Danubio, assai probabilmente approdato nelle nostre acque interne per errore frammisto ad avannotti di pesce gatto (Ictalurus melas) utilizzati per ripopolamento. La prima segnalazione è relativa al fiume Adda e risale al 1957. La capacità di diffusione e di adattamento di questo pesce ha cominciato a rendersi manifesta soltanto a partire dagli anni ’80 e, allo stato dell’arte, interessa ormai tutto il bacino padano. Sono stati fatti notevoli sforzi per arginare questo fenomeno, tra i quali spicca per irresponsabilità l’immissione nel Po dell’aspio (Aspius aspius) un ciprinide predatore in teoria in grado di predarne le uova e gli avannotti, il cui nome si è aggiunto alla lista delle specie alloctone presenti, tuttavia la popolazione di siluri è in florido aumento, mentre pare che l’aspio preferisca orientarsi verso altre prede.
Le nostre acque dolci costituiscono in effetti uno degli ambienti più colpiti dalla presenza di organismi "di importazione": nella sola Lombardia vi sono almeno 20 specie di pesci, una di molluschi, due di crostacei fra cui il famigerato gambero “killer” della Louisiana (Procambarus clarkii), una di anfibi e una di rettili, vale a dire la ben nota tartaruga dalle orecchie rosse (Trachemys scripta).
Quest’ultima è stata importata per anni, in milioni di giovani esemplari, come piccolo animale da compagnia. La gran parte di questi individui non sopravviveva per più di qualche mese a causa di malattie e delle inadeguate condizioni di trasporto e di allevamento. I pochi esemplari superstiti, in presenza di condizioni favorevoli, tendevano ad aumentare rapidamente di dimensioni, raggiungendo in pochi anni taglie ragguardevoli e in ogni caso poco compatibili con una gestione domestica. Per questo motivo un gran numero delle suddette tartarughe è stato irresponsabilmente abbandonato in cave, laghetti e lanche fluviali. In questi ambienti dove, pur non riproducendosi, si è adattata assai bene, questa tartaruga entra in competizione alimentare con la tartaruga acquatica autoctona Emys orbicularis, assai meno resistente alle malattie, la cui sopravvivenza a livello di specie è comunque in pericolo anche per motivi di altro genere.
Un fenomeno analogo sta portando alla sostituzione dello scoiattolo rosso autoctono (Sciurus vulgaris) da parte dello scoiattolo grigio (Sciurus carolinensis) di origine nordamericana: da pochi esemplari liberati nel Parco di Stupinigi (TO) nel 1948 si è sviluppata una popolazione assai numerosa, il cui areale si estende di diversi chilometri ogni anno. La specie nordamericana è di dimensioni maggiori di quella europea, oltre ad essere più aggressiva e maggiormente adattabile e, per giunta, è in grado di provocare notevoli danni in ambito agrario e forestale.
Persino il comune ratto delle chiaviche (Rattus norvegicus) è un alloctono giunto in Europa dall’Asia verso la fine del Medio Evo, ma che ha cominciato ad effettuare vere e proprie invasioni solo verso il XVIII secolo: ha praticamente spodestato il preesistente ratto nero o dei tetti (Rattus rattus) dalle città in quanto lo sopravanza abbondantemente per dimensioni, aggressività e capacità di adattamento all’ambiente circostante. Questo cambio di guardia presenta tuttavia quantomeno un aspetto favorevole: i parassiti (pulci) che si accompagnano al ratto delle chiaviche sono differenti da quelli che caratterizzano il ratto nero e, contrariamente a questi ultimi, non sono in grado di fungere da vettori di trasmissione dell’agente della peste.
Si tende a pensare che i problemi causati da esseri viventi alloctoni siano limitati al mondo animale, ma la realtà è purtroppo assai diversa. La pianta acquatica Elodea canadensis, diffusa ormai da secoli su tutto il territorio europeo vi giunse sotto forma di frammenti della pianta stessa attaccati alla chiglia delle navi provenienti dai porti situati lungo i grandi fiumi del Nord America.
Una fonte di problemi recenti è rappresentata dall’Ambrosia (Ambrosia artemisiifolia), pianta erbacea di origine nordamericana comparsa in Italia ed Europa dall’inizio degli anni ’60. Ogni individuo di questa specie pioniera, che predilige quindi i terreni marginali o incolti fino a 500 metri di quota, è in grado di liberare nell’ambiente fino a più di un miliardo di granuli di polline caratterizzati da elevatissima attività allergenica, come ben sanno coloro che soffrono di febbre da fieno. Considerando inoltre che il periodo di fioritura dura da luglio a tutto ottobre e che il suo areale di diffusione interessa ormai buona parte del territorio padano, è possibile farsi un’idea della rilevanza del fenomeno e dei suoi eventuali sviluppi futuri in termini di salute pubblica.
Dall’esame di questa variegata panoramica di esempi è possibile trarre alcune importanti conclusioni, la prima delle quali è addirittura fondamentale: ogni immissione di una specie nuova in un ambiente costituisce un vero e proprio vaso di Pandora che, una volta aperto, ben difficilmente potrà essere nuovamente sigillato, e comunque non prima di aver liberato il suo pericoloso ed imprevedibile contenuto.
L’eradicazione di una specie alloctona in fase di diffusione invasiva è un obbiettivo estremamente arduo, quando non impossibile, che comporta in ogni caso un impegno gravoso in termini organizzativi ed economici. Tale operazione risulta ancor più difficile avendo a che fare con organismi in grado di spostarsi liberamente, in assenza di barriere geografiche di rilievo, su gran parte del nostro territorio nazionale.
In altre parole, è assai probabile che ci si debba abituare al concetto che ormai la nutria e il siluro, così come l’ambrosia, lo scoiattolo grigio e molte altre specie facciano ormai parte del nostro patrimonio floro-faunistico e che sia più ragionevole l’istituzione di misure di controllo piuttosto che di eliminazione.
Bisogna anche considerare il fatto che l’atteggiamento comune nei confronti dei problemi ambientali è in genere più romantico che scientifico: si tende quindi a considerare l’ambiente o la biodiversità come uno status quo da mantenere inalterato e proteggere a qualsiasi costo. In realtà qualsiasi situazione ambientale è un processo estremamente dinamico che va incontro a continui cambiamenti, dove la comparsa o l’estinzione di una specie o più sono fenomeni normali e ricorrenti, e questa costituisce una prospettiva che è bene non perdere di vista.
D’altro canto gli esseri umani sono per natura degli introduttori di alloctoni: il cosiddetto agroecosistema si basa ormai da secoli su specie vegetali alloctone (mais, riso, soia, girasole, patata, pomodoro, tabacco, peperone, melanzana, kiwi, etc.) e anche il nostro patrimonio forestale è stato contaminato, quantomeno negli ultimi cinque secoli, da una lista lunghissima di specie straniere (ailanto, robinia, olmo siberiano, larice giapponese, etc.), alcune delle quali non solo sono sopravvissute, ma costituiscono attualmente la flora dominante e caratteristica di determinati ambienti.
Quanto finora esposto non deve però condurre ad un atteggiamento di accettazione passiva e rassegnata dei fenomeni, quanto piuttosto evidenziare l’assoluta necessità da un lato di evitare nella massima misura possibile l’introduzione volontaria e non di nuove specie, qualora essa comporti anche solo il minimo rischio di acclimatazione e diffusione, e dall’altro di effettuare un ininterrotto servizio di vigilanza ed intervento per la salvaguardia della nostra situazione ambientale.
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